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Giudizio clinico: Quasi vomitevole. Non fatemi il paragone con Dracula. Sia mai.

Avvertenza: questa recensione contiene una quantità elevata di sarcasmo, rimandi al culto del cinema gotico e una sincera preoccupazione per la sanità mentale di chi ha deciso che servisse davvero un remake di Nosferatu.

Iniziamo.

“Nosferatu” è tornato.

Di nuovo.

Come le cimici da letto nei motel di provincia: inutile, irritante, difficile da debellare.

E no, non è una battuta da fan di vecchia data. È il lamento straziato di chi ha visto Murnau girarsi nella tomba, con una velocità tale da generare corrente elettrica nel cimitero.

Il protagonista?

Un cosplayer di malumore, truccato da Ikea goth, che ci guarda fisso per due ore come se fosse lui a voler cambiare canale. Nessuna minaccia. Nessun fascino. Nessuna ombra inquietante sulla parete. Solo una lunga, lunghissima camminata di tristezza. Sembra più un impiegato delle poste dopo il turno che il Principe delle Tenebre.

L’atmosfera?

C’è.

Ma è quella del reparto vernici: tutto marrone tutto opaco, tutto “meh”.

Il film si prende terribilmente sul serio. Talmente tanto che ti aspetti, da un momento all’altro, che Nosferatu molli tutto e apra un podcast sulla decadenza dell’Occidente.

Il paragone con Dracula?

MA PER CARITÀ.

Bram Stoker ha chiesto il copyright post mortem, Lugosi ha vomitato nel sarcofago e persino Gary Oldman si è tolto la parrucca a metà visione per protesta.

Il Dracula di Coppola era un poema visivo.

Questo? È il manuale delle istruzioni di un incubo IKEA: svedese, buio e incomprensibile.

Diagnosi finale:

Visione sconsigliata ai vivi, ai non-morti e persino agli appassionati di cinema espressionista.

Sospetto di TSO per chi ha scritto, prodotto, montato e – soprattutto – detto “Sì, facciamolo davvero”.

Una sola cosa si salva: i titoli di coda. Non perché siano belli, ma perché indicano la fine.

“Appongo la mia firma…”

Grazielladwan (C)